Ospitammo la Personale di Marco Angelini a dicembre 2018, il titolo era emblematico: il Futuro è stupido. Adesso che nel Futuro ci siamo, più o meno, e proprio intelligentissimo non ci sembra, vorrei subito esordire con la domanda delle domande: che ne pensi del Presente?
Il futuro è stupido, progetto espositivo organizzato in collaborazione con la Galleria Emmeotto a cura di Giuditta Elettra Lavinia Nidiaci, comprende una mia cospicua serie di opere in stretto dialogo fra loro. Si tratta di tecniche miste di pittura su tela e altri supporti realizzate nel mio studio a Roma fra il 2013 e il 2018 e, alcune, durante la residenza presso Facto che ha preceduto la mostra.
Il tempo influenza da sempre i miei lavori. Lo vivo senza ansia, come un costante divenire, una trasformazione incessante da ciò che era a ciò che sarà, passando per l’attuale, il presente. La mia ricerca è infatti assimilabile a un viaggio, che porta con sé tracce di passato (la memoria) in attesa del futuro. La forma astratta interpreta perfettamente la mia poetica fluida e mutevole che suggerisce l’esistenza di multiple realtà.
Nel tempo sospeso in cui siamo chiamati a vivere in questo momento di pandemia si può solo cercare di fare del proprio meglio per affrontare ogni giornata nel migliore dei modi possibili facendo sì che questo tempo diventi una risorsa e non una condanna.
Credo che questa crisi stia rafforzando la solidarietà e mettendo in evidenza l’umile posto dell’umanità sulla terra.
Penso che questa crisi possa essere un’opportunità per coltivare l’empatia.
Marco, lo spazio e il tempo sono elementi fondamentali del tuo concetto artistico. Il Lockdown, che sul rapporto con lo spazio e il tempo si fonda, essenzialmente, ha prodotto in te nuove riflessioni artistiche? E se sì, in che direzione?
La mia pratica artistica si evolve attorno alle nozioni di tempo e memoria, uomo ambiente e contesto urbano.
Per questa ragione la pandemia sta avendo un impatto enorme sulle mie idee e sulla direzione che la mia arte prenderà.
Ho sempre pensato che ai critici spettasse scrivere e agli artisti creare. Ho sempre creduto che fosse una forzatura scrivere un testo, rispondere a delle domande strutturate sulla mia arte, proprio perché la mia modalità espressiva si esprimeva attraverso la creazione di qualcosa e non attraverso la sua narrazione.
In questo periodo di pandemia mi sto invece ricredendo.
Sto usando il blocco come periodo di riflessione cercando di narrare a me stesso la mia storia personale. Come se prima non ci fosse stato il tempo di tracciare un mio intimo e personale storytelling. Forse mi ha convinto il maggior interesse della gente, in questo periodo, al pensiero degli artisti che credo sia uno dei più sinceri proprio perché l’arte si intreccia continuamente con la vita.
Come ho già affermato in una mia recente altra intervista penso che gli artisti siano già abituati all’isolamento nella pratica della loro creatività artistica. Ora però l’isolamento opzionale si trasforma in isolamento obbligatorio e la psiche umana non è abituata a praticare la creatività sotto la pressione della paura dell’ignoto e di qualcosa di invisibile. La natura stessa del lavoro degli artisti ha a che fare con il visibile.
Assieme allo spazio e al tempo lavori molto anche con i materiali, spesso di scarto, o comunque frattali, dettagli. A questo associo – forse a torto – anche una riflessione sul recupero e sulla capacità di accostamenti insoliti. Stai sperimentando con nuovi materiali ultimamente?
La mia ricerca espressiva è dominata dalla materia.
A volte i materiali diventano la superficie pittorica sostituendosi alla tela, come nel caso del polistirolo, dell’alluminio o del ferro. Altre volte sono materiali di riciclo (carta, cellophane, chiodi, viti, nastri di registrazione, pellicole fotografiche) che diventano parte dell’opera. Gli oggetti comuni che imprimo sulle tele sono semplici e hanno una loro storia, perché nati per l’utilizzo e vissuti da qualcuno, chissà in quale spazio e tempo.
Rifletto a lungo per decidere come sistemare gli oggetti sulla superficie o quali materiali scegliere, ma poi il processo di creazione è rapido, anche se spesso avviene a più riprese. Considero il mio processo creativo fisico oltre che mentale, poiché gli oggetti e i materiali che utilizzo sono destinati nel tempo a trasformarsi come i metalli che si ossidano, la ruggine che avanza e le colle viniliche che, cambiando colore, individuano nuove possibilità espressive.
Qualche tempo fa ho ricevuto in dono una gran quantità di lamette anni 70 all’interno di scatole dal design retrò. Credo sia proprio arrivato il momento di usarle. Cosa rappresenta questo periodo se non proprio una dicotomia o un taglio?
Ultima domanda: la virtualità e la digitalizzazione, lasceranno comunque spazio all’arte “su supporto”, alla tela, all’assemblaggio, alla plastica? Come ti poni nei confronti dell’arte digitale?
Si. Potranno convivere.
Non penso che la tecnologia moderna renda la gente maggiormente connessa al loro ambiente. Credo che apra delle nuove strade di condivisione. Umberto Eco, famoso filosofo italiano, si poneva il dubbio se posizionarsi come apocalittici o integrati rispetto alla tecnologia. Forse la chiave sta proprio nel rimanerne affascinati ma non del tutto dipendenti.
La tecnologia non ha migliorato l’arte.
Ha stimolato nuove forme di espressione artistica che possono piacere o meno come del resto tutte le manifestazioni d’Arte. Apprezzo molto i lavori di Bill Viola ma nasco dalla pittura di Burri, dai tagli di Fontana, dal dripping di Pollock, dagli oggetti di Manzoni.
Ho realizzato due video: uno nel 2014 dal titolo “Solaris in fabula” presentato per la prima volta nel corso di una rassegna organizzata a Roma dalla curatrice Giusy Emiliano presso la Sala Santa Rita e uno nel 2019 dal titolo “Steps” (passaggi) presentato nello stesso anno durante una mia mostra personale a Varsavia dal titolo Fluid Memories che ha visto la curatela di Katarzyna Haber e Giuditta Elettra Lavinia Nidiaci.