STILL è la personale di David Lascaris in mostra qui a FACTO fino al 14 giugno 2019. Durante l’allestimento siamo andati a fare qualche domanda a questo giovane artista dalla vita un po’ “gipsy” e da un profondo senso di interiorità.

Raccontaci la tua formazione?

Ho studiato architettura a Genova, quindi sono architetto, in teoria. Poi mi sono allontanato da questo settore perché ho fatto la tesi in Cina di un anno. è stata un’esperienza completamente diversa da quella cui siamo abituati qui. Là ho approfondito e compreso concetti di immaterialità e istantaneità. La vita è immateriale: un giorno puoi andare a prendere il caffè in un posto, il giorno dopo non c’è proprio il “building”, perché l’hanno buttato giù. E quindi questo continuo succedersi di cose, una continua mutevolezza, sono cose che mi sono rimaste dentro.

Molte delle mie opere sono ‘in trasformazione’. Qui a FACTO sto usando del ghiaccio secco, materia imprevedibile e destinata a finire.

STILL, mostra di David Lascaris PH Diego Pegori

Dopo la tesi in Cina ho lavorato come architetto per qualche anno. Ma il vero primo contatto con il mondo dell’arte l’ho avuto quando ho lasciato lo studio per cui lavoravo per andare a lavorare per un artista a Milano, Chiara Dynys, molto famosa. Grazie a lei sono entrato ufficialmente nel mondo dell’arte, ho capito come funzionava e che era il mondo dove volevo stare.

 

Parlaci della tua esperienza in Cina?

Una cosa incredibile di questo luogo è l’alta densità di popolazione, anche se la percezione dello spazio pubblico è completamente diversa da quella occidentale. Quindi la tesi si è ha attraversato argomenti a cavallo tra l’ambito architettonico/urbanistico e l’ambito sociale: ho studiato il loro modo di vivere, come vivono e percepiscono la strada, il senso che danno allo spazio pubblico: per esempio Piazza Tienanmen è un luogo di rappresentanza e di potere e non la piazza dove ci si incontra. Loro si incontrano su una rotonda o in un angolo insignificante, si portano una sedia e si mettono a giocare a dama cinese. E’ un aspetto molto interessante e residuale. Una bella soddisfazione è stata quando la mia tesi è stata esposta in un padiglione della Design Week di Pechino e poi è stata pubblicata anche su Abitare.

 

Ti senti più architetto o più artista?

In realtà non mi piace definirmi, perché sono molto “shy” (timido, riservato, ndr). Però la mia formazione da architetto è rimasta anche nelle cose artistiche. Quando ho un’idea in testa, non è detto che quell’idea arrivi a completa realizzazione, può succedere che mentre progetto cambio totalmente percorso. Però in una mostra o in una galleria devi portare dei progetti definiti e non dei “work in progress”; qui la mia formazione di architetto mi aiuta: sfrutto molto la mia capacità di disegnare e rappresentare lo spazio per impostare i miei progetti e riesco a organizzare il lavoro nel dettaglio. Anche il mio modo di disegnare le forme, sempre fatte di volume netti e linee taglienti è sicuramente una deformazione da architetto. Però l’aspetto dell’arte mi ha fatto sentire più svincolato: cioè non devo necessariamente pensare solo ad angoli retti o solo codice RGB: esistono tanti colori e tante forme. Questa ‘libertà’ è molto più interessante. L’architettura è solo una delle forme possibili di espressione!

 

Adesso dove vivi e cosa fai?

Ora vivo ad Amsterdam, e ci sono arrivato dopo tre anni di lavoro come assistente di Chiara Dynys. Con lei ho lavorato e imparato tantissimo, ma a un certo punto cercavo il cambiamento e ho pensato di seguire il mio fidanzato che andava ad Amsterdam. Quindi si potrebbe riassumere che in Olanda mi ci hanno portato di motivazioni: la ricerca di qualcosa lavorativamente ‘nuovo’ e l’amore. Però possiamo anche dire che la mia vita è un po’ “gipsy”: sono ligure, ho vissuto in Cina, ora in Olanda e domani chissà dove sarò… anche se dietro un po’ di delusione per l’Italia me al porto…

 

Cosa ne pensi della Nuova Galleria FACTO?

È uno spazio che si presta per molte cose. Certo un po’ difficile: per esempio se avessi dovuto portare delle opere fisiche, ne avrei portate una marea, perché questo spazio ha una personalità molto forte e devi riuscire a non farti schiacciare da lui. Ti mette timore e allo stesso tempo ti attrae con un fascino ancestrale.

STILL, mostra di David Lascaris PH Diego Pegori

 

Quali sono le tue influenze artistiche?

A livello di ispirazione un personaggio che mi ispira per il suo ’approccio è l’artista cileno Alejandro Jodorowsky. Lui è attore, regista ed esperto di magia. Cerca sempre di tirare fuori tutto quello che è inconscio, sfruttando l’associazione libera di pensieri e immagini, tanto che lui parla di sogni lucidi, esperienze metacorporee ed esoterismo.

Principalmente quello che mi ispira, più che qualcosa di esterno, è una cosa interna. Spesso mi viene ispirazione dai miei sogni, che mi danno un input iniziale per sviluppare un’idea artistica. Infatti vado in analisi (di tipo junghiano) proprio per approfondire il mio inconscio che  per me grande fonte di ispirazione. Quindi parto sempre da delle immagini che sento rimbombare dentro e devo trovare il modo di buttarle fuori. Questo è quello che mi ispira anche se non so se sia la parola giusta.

 

C’è una parola giusta?

Credo sia “emergente”. Per esempio anche in fotografia ho lo stesso approccio: non faccio mai una foto pensata; se devo scattare una foto mi lascio coinvolgere da qualcosa che mi ha colpito, quasi sempre scatto e non so neanche perché. Poi quando la riguardo, vedo sempre qualcos’altro. Ti faccio un esempio: una volta in un palazzo storico sono rimasto incantato dai lampadari di vetro e ho iniziato a fotografarli; quando ho riguardato le foto mi sono reso conto che li avevo fotografati in modo che le due lampadine dentro sembrassero degli occhi. e Questi volti mi guardavano… erano molto ‘serpenteschi’, non so nemmeno come descriverli. Fatto sta che ho capito cosa stavo fotografando solo dopo averlo fotografato.

 

Cioè nel momento in cui hai fatto la foto, hai sentito il bisogno di scattare, ma senza la consapevolezza?

Si, senza sapere. E’ come se ci fossero due momenti: il primo è quello dello scatto inconsapevole e il secondo è quello del riconoscimento conscio. Ecco perchè credo che per me la parola giusta sia “emergere” più che ispirazione.

 

Che rapporto c’è tra teoria e pratica nel tuo processo creativo?

Non parto quasi mai dalla teoria, la teoria è qualcosa a cui arrivo dopo per approfondire. Parto sempre da uno stimolo interiore. La teoria è quasi sempre un punto di arrivo e mai di partenza. So che può essere bizzarro, poiché nell’arte concettuale dovrebbe essere il contrario. Per me è più un bisogno di buttare fuori qualcosa. Ad esempio in alcuni video in mostra qui a FACTO c’è la riproduzione del mio volto che si scioglie, questa è un’immagine che ho prelevato da un mio sogno: non ricordo dove ero, ma a un certo punto sento bagnato, forse ero appoggiato a un tavolo, e mi sento sempre più bagnato; guardandomi mi accorgo che sono io che mi sto sciogliendo. L’elemento acquatico è molto ricorrente nei miei sogni e nella mia arte, è collegato al non avere forme definite e al poter prendere tutte le forme.

 

Ultima domanda: hai altri progetti in futuro?

Adesso in contemporanea ho una mostra a Roma che è molto legata a questa. E’ una mostra sullo specchio, inteso come porta verso un qualcos’altro che che non può essere al di là dello specchio ovviamente, ma deve essere all’interno di noi. Quindi si ritorna alla profondità inconscia. Poi il 20 luglio ho l’inaugurazione della biennale “Latitudini” a Genova, in cui ci sarà una mia opera. Di progetti a livello artistico ne ho una marea, ma mi è molto difficile realizzarli perché non utilizzando un mezzo “semplice” come la pittura potrei “vomitare” quando voglio, invece ogni progetto mi costa tantissimo. Quindi spesso mi capita che un’idea di progetto venga realizzata solo 3 anni dopo, oppure progetti che ritenevo fortissimi e quando ho avuto la disponibilità a farli non li vedevo più interessanti. Alla fine ho avuto tantissimi “aborti”. Però anche questo secondo me è legato all’inconscio, probabilmente io ero cambiato.

 

Un progetto abortito lo vedi come un fallimento? Che significato ha per te?

Come un fallimento no! Perché credo che sia un’evoluzione: quel progetto non mi interessa più, perché sono andato in un’altra direzione che mi interessava di più. Questo non significa che l’altra direzione fosse fallimentare, o meglio potrebbe esserlo come no… Chissà? Dato che non ho preso quella strada, non lo posso sapere. Quindi non lo considero un fallimento, ma è molto frustrante: è come se fossi sempre con la mente molto più avanti della mano. E’ sempre una rincorsa, anche se secondo me questo aspetto è vitale.

Elena Janniello

STILL, mostra di David Lascaris PG Diego Pegori